Spesa Pubblica


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Negli ultimi anni le manovre correttive di finanza pubblica che si sono succedute hanno invertito la tendenza a una costante e forte crescita della spesa primaria.

I tagli alla spesa pubblica – indispensabili per procedere a una riduzione della pressione fiscale che giungerà, nel 2013, al 45,3 per cento del PIL -, sono stati però realizzati, in larghissima parte, con riduzioni lineari alle dotazioni di bilancio, ispirati alla logica, ultra liberista, “dell’affamare la bestia”, ove la “bestia” è stata rappresentata anzitutto dalle regioni e dai comuni italiani, cui sono state sottratte risorse indispensabili per continuare a garantire quantità e qualità dei servizi offerti ai cittadini, e in particolare ai più bisognosi, nei segmenti vitali della società moderna, quali la scuola, la sanità, l’assistenza agli anziani, la casa.

Nel processo di riduzione della spesa è mancata una scala di priorità, e i tagli hanno colpito pesantemente le spese in conto capitale e i settori chiave per lo sviluppo, dove è invece necessario riqualificare la spesa e investire, come nel caso dell’istruzione, e settori vitali, che sono ormai da tanti anni in sofferenza, come quelli della giustizia,  della sicurezza pubblica e della cultura.

Il blocco del turn-over e la mancanza di risorse finanziarie hanno posto molte amministrazioni nella concreta impossibilità di esercitare le funzioni e fornire i servizi di propria competenza. Nei tribunali oggi mancano gli addetti per dattilografare gli atti; nella scuola i professori, troppo spesso umiliati e sottopagati, devono supplire a gravi carenze di dotazioni materiali; nei commissariati talvolta mancano persino le risorse per cambiare i pezzi di ricambi delle volanti; i siti archeologici sono abbandonati all’incuria e crollano. E così anche nella sanità, gli ospedali, in particolare quelli delle regioni commissariate, hanno subito tagli drastici, e in taluni casi retroattivi, del budget, che hanno comportato severe riduzioni delle prestazioni sanitarie.

A chi, con incauta leggerezza, invoca tagli draconiani alla spesa pubblica, rispondiamo che non sa quello di cui sta parlando. Perché un conto è eliminare sprechi, inefficienze, enti e attività inutili che lo Stato non deve svolgere e che vanno affidati, secondo una logica di sussidiarietà, ai privati, altro è ridurre le tutele e i diritti e peggiorare la qualità dei servizi. E il rischio che abbiamo di fronte è proprio questo. E’ svilire il dibattito su una questione fondamentale semplificandolo in una chiave ideologica tra i fautori del meno Stato e meno tasse, e quelli del più Stato e più tasse.

Non è con quest’approccio che si risolvono i problemi dell’Italia, ma con un nuovo metodo, che superi la logica dei tagli lineari, adottata dal centro-destra, e che renda migliore e assai più incisiva la spending review avviata dal Governo Monti.

Noi crediamo che le difficoltà sinora incontrate per attuare una revisione selettiva della spesa pubblica non nascano solo dalle pressioni di lobby e corporazioni, ma anche dal fatto che tale processo è stato sempre ricondotto esclusivamente al Governo e a quelle stesse strutture ministeriali non di rado resistenti al cambiamento. Per tale ragione riteniamo necessario un cambio di strategia, che renda partecipi di tale processo il Parlamento, le autonomie territoriali e i dirigenti delle amministrazioni pubbliche responsabili della gestione delle risorse.

La scelta di dove e come tagliare ovvero rimodulare e riqualificare la spesa è una scelta squisitamente politica, che deve essere esercitata in primis nel luogo della democrazia, ovvero nelle Camere.

Oltre ai grandi comparti di spesa pubblica della previdenza, della sanità e dei consumi intermedi per acquisto di beni e servizi, il nostro ordinamento prevede, iscritte nel bilancio dello Stato, migliaia di singole autorizzazioni legislative di spesa, sparse nei più svariati ambiti e raggruppate in oltre 170 programmi. Per questa ragione proponiamo l’Istituzione nella prossima legislatura, senza oneri aggiuntivi, di un’apposita Commissione parlamentare bicamerale, cui assegnare il compito di procedere – d’intesa con il Governo, con le singole commissioni di merito e con il supporto delle istituzioni esperte in materia di finanza pubblica – al vaglio di tutte le norme di spesa, ai fini della definizione di un progetto complessivo di semplificazione e riordino dei programmi di spesa, e delle leggi sottostanti, del bilancio dello Stato, attraverso il quale potranno essere diversamente sagomati il perimetro e le articolazioni della pubblica amministrazione, e individuate le finalità e le attività da eliminare, perché non più attuali o essenziali, e quelle che invece vanno potenziate o rifinanziate, quali, in primis, l’istruzione, scolastica e universitaria, e la ricerca.

Simmetricamente, noi crediamo che l’individuazione dei costi standard e la scelta dei modelli gestionali più economici ed efficienti sia, invece, una scelta prettamente tecnica, che va rimessa all’autonomia e responsabilità dei dirigenti pubblici, la cui retribuzione deve essere sempre più legata ai risultati ottenuti in termini di ottimizzazione dei costi a servizi invariati.

Per ridurre e riqualificare la spesa pubblica bisogna quindi implementare il processo di definizione dei costi e dei fabbisogni standard delle amministrazioni, centrali e locali. Tale processo, assieme alla centralizzazione delle procedure di acquisto, dovrà eliminare le enormi differenze di costo dei beni e servizi sul territorio nazionale, particolarmente evidenti nel settore della sanità, dove si stima peraltro che oltre il 25 per cento della spesa sia frutto di odiosi fenomeni d’intermediazione politica, che devono essere contrastati con il massimo rigore possibile, affinché il funzionamento del sistema sanitario nazionale sia presidiato da criteri di efficienza, merito e qualità professionale, e non da quello dell’appartenenza politica. E’ necessario, a tal fine, sganciare le nomine dei manager sanitari dalla politica e legare una quota significativa della loro retribuzione al raggiungimento di obiettivi di servizio nei tempi e nella qualità delle prestazioni – anche al fine di ridurre i tempi di attesa per le prestazioni sanitarie – sulla base di un sistema di misurazione dei risultati e di custumer satisfaction. Il grado di soddisfazione degli utenti del servizio sanitario nazionale dovrà costituire il parametro di riferimento per modulare le retribuzioni e i percorsi di carriera di direttori sanitari e per la nomina dei dirigenti.

Nella medesima prospettiva, occorre rivisitare la normativa in materia di federalismo fiscale, allineando tra l’altro al livello degli enti più virtuosi le spese di back-office e di funzionamento, ivi comprese quelle per il personale. Dovranno, inoltre, essere riorganizzati e razionalizzati gli enti intermedi, nonché, più in generale, ripensate alcune scelte in materia di riparto di funzioni e competenze tra livelli di governo, al fine di individuare i bacini di utenza ottimali in termini di economie di scala per la fornitura dei servizi pubblici (giustizia, sanità e istruzione in primis) a livello territoriale.

Ampi margini di ottimizzazione dei costi andranno poi rinvenuti nel superamento del grave ritardo tecnologico e organizzativo della pubblica amministrazione, in cui vanno stimolate innovazioni di processo e di prodotto e applicate celermente le novità introdotte in materia di Agenda digitale; la banda larga e l’accesso a internet ad alta velocità dovranno essere configurati come un servizio universale che consenta, attraverso le tecnologie digitali, anche di interagire con la PA dal computer o dalla tv di casa.

Quanto al pubblico impiego, bisogna proseguire, ma in modo selettivo, nel processo di riduzione degli organici, promuovendo la flessibilità organizzativa e la mobilità dei dipendenti pubblici, che dovranno essere di meno ma più qualificati e produttivi, agendo al contempo per ridurre ancora le consulenze esterne e il ricorso a prestazioni al di fuori della disciplina del pubblico concorso. Occorre quindi rendere effettivi la cultura della valutazione dei risultati e i criteri di merito e competenza per gli avanzamenti di carriera, prevedendo altresì che le retribuzioni pubbliche siano allineate alla media dei maggiori paesi europei, incrementandole ove opportuno – come ad esempio nel caso degli insegnanti – e riducendole laddove si manifestano eccessi ingiustificati rispetto alla qualità, alla quantità e alle responsabilità del lavoro svolto a servizio dello Stato.

Occorre, infine, intervenire per ridurre i costi della politica e l’area d’intermediazione affaristica che ruota intorno a una “certa” politica. A tal fine, dovrà essere approvato un disegno di legge di riforma costituzionale che preveda, tra l’altro, la riduzione del 30 per cento il numero dei parlamentari, l’accorpamento delle regioni, il superamento di talune non più giustificate peculiarità degli statuti speciali e l’abolizione delle province. Con legge ordinaria, andrà invece rafforzato l’obbligo di unione ed esercizio congiunto delle funzioni nei comuni con meno di 5000 abitanti, promossa la cessione delle partecipazioni pubbliche nelle società non quotate e non strategiche e introdotte nuove norme per la riduzione, la trasparenza e la certificazione delle spese di partiti, movimenti e gruppi politici.

Bisogna, inoltre, introdurre una regolamentazione organica dell’attività di lobbying e di rappresentanza degli interessi, per rendere trasparente e ispirata a un codice etico la partecipazione dei gruppi di pressione al processo decisionale pubblico, nonché rafforzare gli strumenti e l’apparato sanzionatorio per la lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione.

Con un’azione ad ampio raggio impostata su queste basi spendere meno e spendere meglio, tagliare gli sprechi senza intaccare i diritti e i servizi pubblici, è possibile, a patto che ciascuno faccia la sua parte.